Carlo Farzetti | Talk Show Host

DIARIO - GIORNO QUATTRO

GIORNO DI MEMORIE E DI AMPIE VEDUTE

Correre con la bici per i sentieri che portano ai colli.
Dietro al paesino. Su verso i prati verdi, sferragliando i raggi delle ruote della vecchia graziella.
Una specie di campo scuola, laico, di appena quindicenni. In mezzo alle montagne bellunesi, arroccato sopra un paese di vecchi vaccari.
L’aria sapeva di bosco, il vento soffiava dalla cima e ce la portava giù.
Ogni mattina stavo a guardare il sole che nasceva e ogni sera aspettavo che si fosse coricato dietro alle montagne.
Ecco.
Li, in quel posto ho lasciato l’infanzia e soprattutto la pre-adolescenza; in quel posto ho accettato di crescere.
Gli animatori non erano un granché. A parte uno o due. Sicuramente la silvia, di cui mi innamorai perdutamente: castana, non tanto alta e molto dolce. Aveva ventun’anni e io quattordici e mezzo. Ma ancora non ero cresciuto. Stavo sempre per conto mio. Da solo, a passeggiare per i boschi ed aspettare il sole, il vento o la pioggia come se mi appartenessero. Con gli altri non mi trovavo, ero molto scontroso, timido, insicuro. Ero bassetto e cicciotello; avevo quattordici anni ma tutti me ne davano dodici o undici, e a quell’età fa molto male all’autostima perdere anni. Il problema era il mio viso: rotondo morbido e liscio come quello di un bambino. Un bambino che ero stufo di essere.
E avrei smesso senza nemmeno rendermene conto.
Non ero così solo. Avevo una certa cerchia di amicizie, o meglio di conoscenze. Qualche compagno di scuola media (i peggiori), e qualche altra anima persa lungo la strada dell’adolescenza. Noi eravamo quelli sfigati con poche ragazze al seguito: maschiacci o vittime della stessa turbolenza ormonale. Poi c’era il gruppetto dei duri: tutti di quattordici-quindici anni (era il limite massimo di età), violenti, sboccati, che si fumavano qualche cicca e per far vedere a tutti che non si scherzava ci mettevano dentro un po’ di incenso o aghi di pino: rigorosamente sostanze psicotrope. Poi c’erano le ragazze, che al tempo giravano ancora religiosamente da sole. Ed erano ragazze sul serio. Con tutte le curve che saltano fuori dai corpi ancora intrisi di fanciullezza.
Alcune non se ne curavano liberando nei nostri corpini implumi delle vere e proprie mandrie di ormoni, quando, durante i giochi o le attività varie, scampava la maglietta o il pantaloncino; altre andavano totalmente in crisi e si mettevano magliettone e gonnoni per nascondersi e noi stupidi si pensava sempre che fosse perché erano brutte; altre invece ci marciavano, si mettevano in mostra e noi tutti, gruppo di quasi ragazzini, si sbavava e si seguiva ogni mossa come per una divinità incarnata. Il problema di tutto questo era che dava fastidio comportarsi così senza capirne il motivo. E io mi intestardivo a tener duro a fare il superiore, che tanto non piacevo a nessuno e allora perché avrei dovuto fare lo zerbino con le più carine quando mai avrebbero ricambiato lo zerbinaggio?
La facevo semplice io.
Poi quelle li andavano dietro in massa a due dei duri e puri.
Gianni e Lucio; me li ricordo ancora.
Bestemmiavano coloriti senza nessun problema, sputavano per terra e fumavano le cicche. Io c’avevo anche provato; ma le bestemmie le dicevo a mezza bocca e non mi sembravano un granché come ribellione, le cicche facevano veramente schifo e sputare avevo appena imparato a farlo con un certo stile, ma mi sembrava che non facesse così colpo come si diceva.
Insomma non ero come loro.
Poi erano alti, magri, forti in tutti i giochi o sport che si praticavano insieme. Io non ero assolutamente competitivo, da nessun punto di vista.
A me stavano ovviamente antipatici, ma non erano tra i peggiori del gruppo dei duri e puri.
I peggiori erano i cani da riporto, che erano due. Vivevano dietro ai duri e puri e in un certo senso rappresentavano la parte più estrema: Gianni e Lucio i belli e dannati; Mario e Franco i brutti sadici.
Ma queste sono cornici, il ricordo che cercavo era diverso, lontano dai disagi che gli ormoni portano con se, si trattava di qualcosa che ha lasciato la sua impronta a fuoco su di me.
Qualcosa che cambiò colore ai miei occhi.
Un pomeriggio interminabile di sole caldissimo e nuvole bianche, qualcosa piovve giù dalla montagna solo per me.
Si stava tutti nel boschetto profumato dietro al casermone dove si dormiva. E c’era fresco li. all’ombra dei pini, seduti sul materasso di terra nera. Si trovava sempre qualcosa da fare.
Adesso non ricordo neanche perché ma quel pomeriggio i duri e puri decisero che i veri uomini sarebbero andati sullo spuntone proibito. E noi, davanti alla sfida non si poteva rimanere indietro. Qualcuno rinunciò ma la maggior parte batté i pugni sul petto e si mise in marcia.
Allora cominciò la scalata; e presto diventò una gara.
Il terreno gradualmente si inclinava. Dopo poco si cominciò ad usare le mani insieme ai piedi.
I duri andavano veloci, ma rallentavano passo dopo passo. Per quanto potevano essere veloci forti e coraggiosi, la montagna non si sarebbe fatta calpestare per ospitare una semplice gara tra ragazzini.
No la montagna ci mise alla prova.
Lo spuntone proibito era alla fine del bosco dove gli alberi alti e muschiosi lasciavano il posto agli arbusti e le pietre. Dietro allo spuntone cominciava un ghiaione che correva su per l’immensa vetta e ci si nascondeva dietro. Mancava poco allo spuntone. In testa stavano i quattro duri. Andavano su spediti ma ansimavano, qualcuno indietro cadde e rotolò un po’. Io continuavo grattare la terra nera con le mani. Scalpitavo sulla parete quasi verticale come se fosse una questione di vivere o morire. E lo era. La montagna urlava il mio nome e tutto quello che volevo era incontrarla.
Tutta la mia solitudine, la mia inadeguatezza e la povertà di vita diventavano sassi che rotolavano lontano sotto di me mentre aggredivo le prime propaggini del ghiaione. Sentivo solo l’urlo della montagna, alto e forte, antico e imponente. Irresistibile. Ormai ero dietro al gruppo di testa. Respiravo la loro polvere ma non avevano più importanza, io volevo la montagna. Eravamo sotto lo spuntone traguardo. Arrivammo quasi insieme ma io senza dire niente continuai. Attaccai la parete sassosa e cominciai a salire; l’urlo della montagna era distinto, secco pieno di verità. Delle lacrime cominciarono a rigare le mie guance. Quel suono era così bello e animale, aggrappato alla mia anima assopita mi tirava su per quelle rocce bianche.
E le mie lacrime continuarono a scendere, senza singhiozzi o sussulti, scendevano come tributo macchiando la terra bianca e polverosa, come un antico rito; dissetavano la montagna.
I duri erano rimasti a guardare poi avevano inteso la sfida alla loro autorità e si erano messi sulle mie tracce. Segugi dietro alla preda. Provavano a lanciarmi qualche parola di sfida ma io sentivo solo le montagne. La strada era sempre più dura, fredda e spigolosa come se nemmeno il tempo li esistesse. Le nuvole si abbassavano e tutto cominciava ad essere nebbia. Il mondo scompariva. Io nemmeno me ne accorsi. Grattai con più foga con le dita sulla montagna. Non avevo più una meta seguivo solo l’urlo. Poi arrivato su un piccolo masso piatto l’urlo disse di guardare dentro. Io non capivo dove. Dentro di me? Dentro alla montagna? Non aveva senso. Sentii l’arrancare sotto di me stavano arrivando. Vedevo solo un mare bianco di rocce e nebbia, un vento freddo spingeva verso la pianura. Le lacrime erano fatte di ghiaccio adesso, ghiaccio liquido. Quello non era più il mondo che avevo conosciuto, quella era la terra delle montagne, lontana dalla solitudine, dal cemento e dal senso d’inutilità che stava diventando la guida della mia vita.
Quella era la Montagna.
Dalla nebbia spuntò Franco rosso in viso e teso. Unico superstite dei duri e puri.
Allora sei già stanco sfigato?
Lo disse con il fiatone.
Io girai la testa per guardarlo e la montagna parlò
Tornatene da dove sei venuto, non è posto per te questo.
Era sorpreso. Allora cambiò espressione, e mi disse con un ghigno
E se no?
Dovrò mandarti via…
Provaci…
Era il più grosso e il più cattivo del gruppo. Appena mi avvicinai senza sapere bene cosa fare mi diede un pugno in faccia. Forte. Che mi fece cadere sul masso piatto che ci ospitava. Rotolai sulla ghiaia accumulata e sentii il sangue cadere sulla roccia secca. E l’urlo mi disse di combattere, mi disse di guardare dentro, di guardare il mio sangue e di combattere.
Quello mi aspettava. E io arrivai. Gli saltai addosso e pigliai un altro pugno, in bocca che fece scricchiolare i denti. Però non mi fermai, lo colpii sul basso ventre e poi ancora sulla schiena e ancora e ancora, sempre più forte. Senza più direzione o dolore, solo con l’urlo nelle orecchie. Prendevo pugni anch’io, calci, strattonate; ma continuavo a colpire e la montagna dietro di me alzava le sue grida al cielo. Un grande sacrificio di sangue. Ai nostri piedi sgocciolava, rosso scuro, grumoso, insieme alla saliva degli animali che scalpitavano dentro di noi. Poi all’improvviso la montagna mi chiamò, mi disse di salire ancora, che ero pronto. E con un balzo mi attaccai alla roccia fredda e cominciai a salire. Franco rimase a terra seduto bofonchiandomi qualcosa dietro che la nebbia inghiottì. Ero pesto, strascicato, colavo dalla faccia. E dentro, dentro c’era solo vita. Mi sentii finalmente libero di vivere. E continuai a salire. In mezzo a tutto il bianco. La cima sopra di me era l’unica cosa che mi rimanesse.
Arrivai dopo qualche ora esattamente sotto di essa. E li l’urlo mi disse che avrei pagato un tributo, che ci avrei lasciato qualcosa. avrei affidato qualcosa alla montagna, e sarei andato ogni tanto a vedere come stava. In cambio la montagna mi avrebbe lasciato il senso della vita, l’Ossigeno la Legge della natura e il Sangue. Mi raggomitolai e aspettai che la montagna desse il suo giudizio.
Mi vennero a prendere qualche ora più tardi semi congelato accoccolato sotto quello che da quelle parti chiamavano “Il nano di pietra”. Un costone di roccia appena sotto alla vetta che si diceva avesse il profilo di un nano imbronciato con la barba. Dissero che addormentarsi sotto quello era pericoloso, perché portava nel mondo della montagna e chi ci andava lasciava per sempre qualcosa li.
Ecco.
Li ho lasciato quello che rimaneva dell’infanzia. L’ho data in dono alla montagna, e lei in cambio la tiene viva e me la fa vedere quando vado a trovarla. La montagna mi ha dato la linfa e la forza, il coraggio e la paura, mi ha dato speranze e incubi.
La montagna mi ha legato e io l’ho legata a me; ancora dovrò sacrificare sangue, sudore e lacrime però saprò per certo di essere vivo.

SOUNDTRACK:

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Francesco Lovison: Chitarra
Daniele Cortese: Laptop
Enrico Bolzan: Giradischi, Elettronica


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